L’universo della dissidenza, un breve saggio

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di Massimo Campo

Emarginare il dissidente da un punto di vista professionale e politico, allontanarlo dal posto di lavoro se questo è di natura statale. Ostacolarlo, quindi, economicamente e materialmente. Denigrare la sua persona a partire dai famigliari, i conoscenti, i colleghi di lavoro, i vicini di casa, sino a raggiungere con tutti gli strumenti a disposizione l’opinione pubblica. Denunciarne la mancanza di etica morale e sociale, quindi diffondere voci su poco ortodosse preferenze sessuali, amore per il denaro e il potere. Sottolineare, oppure costruire ad hoc, informazioni che vedano il dissidente in contatto con persone oppure istituzioni di un altro paese, evidenziarne allora una supposta deriva antipatriottica, antirivoluzionaria, antinazionalista. Realizzare sulla sua persona controlli di spionaggio ambientale, effettuare il monitoraggio delle sue comunicazioni attraverso la rete internet, la telefonia, la posta tradizionale. Realizzare palese e non palese sorveglianza della sua abitazione, delle persone che frequenta e che lo frequentano. Impedirne la libertà di movimento, non concedendo i visti di uscita dal paese o anche solo limitarne pesantemente gli spostamenti interni. Effettuarne arresti continui di poche ore o alcuni giorni allo scopo di debilitare psicologicamente e fisicamente l’individuo. Malmenare la persona, provocare danni fisici, in situazioni celate dietro avvenimenti casuali, liti e incidenti stradali, rapine simulate. Condannare il dissidente agli arresti domiciliari, e isolare l’abitazione dall’esterno. Condannarlo a lunghe pene detentive per reati sostanzialmente politico-ideologici come “incitamento alla sovversione del potere dello stato”, “pratiche antirivoluzionarie”, “attentato all’integrità della nazione”. Condannarlo alla detenzione in campi di lavoro forzato, oppure di rieducazione sociale e politica. Condannare il dissidente all’ergastolo. Condannarlo a morte.

Cosa accade nel mondo

L’utilizzo sistematico delle pratiche appena elencate non è purtroppo esclusivo retaggio del passato. Anche se agli occhi di un occidentale questo insieme di iniziative possono sembrare dettate da un moderno e folle Torquemada, la realtà è diversa e poco confortante. Sono svariati nel mondo i regimi che si avvalgono quotidianamente di queste strategie di limitazione delle libertà personali e di espressione, al solo scopo di perpetuare l’esercizio del proprio potere politico. La lista delle coercizioni applicate ai dissidenti non è altro che la serie degli strumenti e delle pratiche condotte dai vari organi come la Sicurezza di Stato o la Polizia Politica (e altre strutture di natura similare) di paesi a scarsa o nulla presenza democratica.

Aldilà delle considerazioni di stampo sociopolitico che ricadono spesso nella dimensione partigiana delle valutazioni vi è un modo comunemente utilizzato al fine di valutare la democraticità di un paese, osservarne la dinamicità e l’organizzazione politica. Secondo The International Institute for Democracy and Electoral Assistance, una delle più note agenzie intergovernative di monitoraggio e assistenza allo sviluppo dei processi democratici, si analizzano ai fini di studio quattro contesti base: la rappresentatività e la partecipazione dei partiti politici, il processo elettorale, gli equilibri fondamentali espressi dalla costituzione e infine il grado di sviluppo sociale.

Dalle analisi realizzate si evince un dato significativo, tutti i paesi che si muovono palesemente all’esterno dei criteri minimi ragionevoli per potersi definire democratici hanno comunque qualcosa in comune: l’obbligo costituzionale del monopartitismo o una strutturazione politica che de facto si può considerare assimilabile a un regime monopartitico.

I Paesi che fanno parte della prima tipologia (partito unico obbligatorio a livello costituzionale) non sono numericamente numerosi, ma con il contributo del colosso cinese investono del problema della totale/parziale mancanza di democraticità ben 1.491.000.000 di individui, circa il 21% della popolazione del pianeta.

La seguente lista elenca i paesi costituzionalmente monopartitici nel 2012:

  • Cuba (Partito Comunista Cubano)
  • Corea del Nord (Repubblica Democratica Popolare di Corea) (Partito del Lavoro di Corea)
  • Eritrea (Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia)
  • Laos (Partito Rivoluzionario del Popolo Lao)
  • Cina (Partito comunista cinese)
  • Gibuti (Lega popolare per il progresso)
  • Mozambico (Repubblica del Mozambico) (Frelimo)
  • Turkmenistan (Partito Democratico del Turkmenistan)
  • Vietnam (Partito Comunista del Vietnam)

Altri paesi, se pur definibili allo stesso modo totalitari, non obbligano costituzionalmente la società al monopartitismo, ma attraverso strumenti legislativi sviluppati allo scopo limitano o annullano completamente ogni possibile contributo delle opposizioni politiche alla governance democratica.

La seguente lista elenca i paesi de facto monopartitici nel 2012, tra parentesi il partito alla guida:

  • Siria (Partito Ba’th)
  • Zimbabwe (Unione Nazionale Africana Zimbabwe – Fronte Patriottico)
  • Bielorussia (Repubblica di Bielorussia) (Partito Comunista Bielorusso)
  • Kazakistan (Repubblica Democratica del Kazakistan) (Partito Democratico Kazako)
  • Algeria (Repubblica Democratica Popolare Algerina) (Fronte di liberazione nazionale)
  • Rep. del Congo (Repubblica Popolare Congolese) (Partito del lavoro congolese)

Diviene evidente dai numeri presentati che l’impegno alla democraticizzazione delle società non è così vicino al termine come comunemente si ha modo di credere. Nei paesi dove vige il monopartitismo costituzionalizzato, come in quelli dove questo avviene de facto, si sviluppa l’ambiente ideale per generare quegli oppositori alla nomenclatura di potere che definiamo comunemente dissidenti politici.

Dove risultano assenti quegli spazi deputati al dialogo politico e al confronto, che si declinano nella diversità delle opinioni e delle proposte, fioriscono invece desideri e necessità intellettuali che cercano di autoprodurre tali spazi, forzando la serratura della censura e del totalitarismo.

Ma chi è il dissidente tipo? Di cosa si occupa? Come agisce? Lo storico russo Roy Medvedev definisce il dissidente “non solo come colui che la pensa in maniera diversa, bensì come colui che esprime esplicitamente il suo dissenso e lo rende evidente ai suoi concittadini e allo Stato”.

Diviene quindi parte fondamentale del suo agire il comunicare alla società e all’opinione pubblica i motivi che lo spingono a reclamare cambiamenti politici, sociali, economici. Il dissidente deve proporsi forte di una personale moralità, quindi si avvale di strumenti pacifici, democratici e dialoganti, allo scopo naturale di opporsi a regimi violenti e totalitari, strutturalmente impermeabili al cambiamento. La storia moderna è caratterizzata dalla presenza di un numero notevole di dissidenti, che con le loro azioni hanno posto all’attenzione, o addirittura denunciato per primi, una serie di realtà e comportamenti dalle nefaste conseguenze. I loro nomi sono divenuti talvolta paradigma stesso di coraggio, di libertà e di eroismo sociale. Le loro azioni, se non purtroppo il loro sacrificio, hanno spesso attivato quei processi di cambiamento storico-politico che poi hanno condotto quella determinata società a una struttura più consona al vivere civile, o addirittura hanno condotto società di stampo totalitario verso la democrazia.

Liu Xiaobo

Tutti i continenti, tutti i regimi non democratici, hanno prodotto e producono dei dissidenti. Molti meriterebbero di essere ricordati, non solo quelli più noti che sono divenuti un simbolo della rinascita civile di un intero popolo, a volte di un intero continente. Ne citiamo rapidamente solo alcuni. Il dissidente cinese Wei Jingsheng ha combattuto per decenni, pacificamente e con il solo strumento delle proprie parole un regime totalitario che lo ha ripagato con molti anni di carcere e vessazioni. Vicende simili hanno caratterizzato la vita di altri dissidenti cinesi, da Harry Wu che ha fatto conoscere all’opinione pubblica mondiale i campi di lavoro, i famigerati “laogai”, oppure Liu Xiaobo premio Nobel per la Pace nel 2010 per il suo impegno non violento a tutela dei diritti umani in Cina (mentre scriviamo queste parole Liu Xiaobo è ancora detenuto in una località segreta e la moglie posta agli arresti domiciliari).

Ancora un Premio Nobel per la Pace, stavolta del 1935, il tedesco Carl von Ossietzky martire della dissidenza nazista. E poi il polacco Adam Michnik, il democratico sloveno Drago Jančar, l’intellettuale russo Aleksandr Isaevič Solženicyn, il Nobel per la Pace del 1983 Lech Wałęsa, polacco come Michnik. Durante la stesura di questo capitolo è stata resa nota la terribile notizia del ferimento di Malala Yousafzai, una bambina pachistana di 14 anni, definita la dissidente bambina. Con un testo pubblicato sul sito della BBC ha denunciato nel 2009 le terribili privazioni e l’esclusione sociale a cui i Taliban costringevano le donne nella Valle di Swat. Proprio alcune ore fa ha subito un attentato che l’ha lasciata in fin di vita. Stava entrando nelle aule scolastiche, uno dei diritti che ha reclamato per le giovani donne pachistane nella sua denuncia.

Importante ricordare il Premio Nobel per la Pace del 1975 Andrej Dmitrievič Sacharov, che si è opposto con tutte le proprie forze alle sperimentazioni degli ordigni atomici sovietici e alla militarizzazione degli stati satellite dell’ex USSR.

Proprio a Sacharov e al suo impegno è dedicato il Premio per la Libertà di Pensiero istituito dal Parlamento Europeo dal 1988. Questa iniziativa ha come scopo fondante quello di premiare personalità e organizzazioni che abbiano dedicato la loro vita alla difesa dei diritti umani e delle libertà individuali. Un premio che diviene osservatorio privilegiato di quei regimi politici che fondano la propria forza non sul concetto del consenso democratico ma sulla costante limitazione e coercizione dei diritti civili degli individui. Il Premio per la Libertà di Pensiero cerca di portare alla luce realtà lontane o sconosciute. Presenta all’opinione pubblica mondiale quegli uomini e quelle donne che si oppongono coraggiosamente alla tirannia politica, come a quella culturale e religiosa. Vi sono personaggi straordinari tra i vincitori. Il paladino africano dei diritti civili Nelson Mandela, la bengalese Taslima Nasreen condannata alla fatwa per la sua denuncia della condizione femminile nell’Islam, lo slovacco Alexander Dubček. Il giovane cinese Hu Jia, scarcerato appena nel 2011.

La storia della dissidenza politica è amara e colma di speranza al tempo stesso. Molto spesso i dissidenti famosi, se pur dopo anni di privazioni e sofferenze, riescono a comunicare con i media, scrivono libri, esercitano il loro diritto di espressione proprio grazie alle lotte di cui sono stati i principali protagonisti. Ma il dissidente non parla solo per sé, anzi è tutto il contrario. Le sue parole solo le parole non dette dai molti, e così le sue speranze, le paure, il dolore. Il dissidente è un disturbatore, un critico, un non violento perennemente impegnato a registrare l’ingiustizia, a far cronaca della dittatura dei pochi sui molti. È un personaggio scomodo, che non vuole omologarsi ma che per questo spesso rappresenta la cellula embrionale della creatura che si chiama democrazia. Il suo approccio è critico e di denuncia. Investiga la realtà totalitaria e ne riporta le storture e le atrocità. Il dissidente utilizza se stesso come arma, si oppone con la mente e il corpo al regime in una lotta impari per forza.

Aung San Suu Kyi, la dissidente gentile

Una delle più affascinanti storie di dissidenza è sicuramente quella di Aung San Suu Kyi. La sua lotta, il suo coraggio, sono il paradigma della grande forza rivelatrice della dissidenza politica moderna, della forza di rigenerazione, di aggregazione, di speranza che questo tipo di impegno può generare. Aung San Suu Kyi nasce il 19 giugno 1945 a Rangoon, l’attuale Birmania. Il padre è un uomo noto e molto potente all’epoca. Generale dell’esercito birmano e importante esponente del Partito Comunista, è inoltre segretario del partito dal 1939 al 1941. La vita di Aung San Suu Kyi è toccata immediatamente da eventi drammatici. Il padre viene assassinato per motivi politici nel 1947, dopo aver rivestito un ruolo importante nella trattativa con il Regno Unito che poi condusse alla sospirata indipendenza della Birmania. L’impegno politico della famiglia non finisce con la morte violenta del padre perché la madre di Aung San Suu Kyi, Khin Kyi, riveste ruoli istituzionali sempre più importanti sino a essere nominata ambasciatrice birmana in India.

Aung San Suu Kyi

In India la bambina respira a pieni polmoni l’impegno politico, accompagnando costantemente la madre e frequentando le migliori istituzioni scolastiche del Paese. Dal 1964 al 1967 è presso l’Università di Oxford, in Inghilterra, dove frequenta i corsi di economia, politica e filosofia. Alla fine degli studi accademici ottiene la laurea in Economia, Scienze politiche e Filosofia. Si trasferisce a New York, dove continua i suoi studi universitari e trova un impiego presso la sede delle Nazioni Unite.

All’inizio degli anni ’70 incontra per la prima volta Micheal Harris, uno studioso noto per i suoi studi della cultura tibetana che diverrà presto suo marito. Dal loro matrimonio nascono due bambini: Kim e Alexander. Gli anni spensierati, di studio, la vita famigliare e la felicità sono però prossimi alla fine. Nel 1988 deve urgentemente lasciare gli Stati Uniti per raggiungere la Birmania a causa del gravissimo stato di salute della madre Khin. Proprio in quei giorni il Paese vive degli eventi drammatici. Il generale Saw Maung concentra nelle sue mani l’intero potere e fa della Birmania uno Stato dittatoriale.

San Suu Kyi ha la sensibilità democratica necessaria per comprendere prima di altri la gravità della situazione. Dopo molti ragionamenti decide di fondare la Lega Nazionale per la Democrazia, movimento politico non violento che fonda i suoi principi su quelli predicati dal Mahatma Gandhi. Il regime del generale Saw Maung, non sottovaluta il pericolo. Aung San Suu Kyi è una donna giovane, affascinante, colta. Pregna di spirito democratico e non violento agisce ostentando un grande coraggio. Le sue opinioni e i suoi progetti sono al tempo stesso semplici ma dalla forza dirompente. Aung San Suu Kyi parla di democrazia, di uguaglianza tra individui, di libertà, di diritti civili e politici. Il regime militare birmano è furente con la donna. Decide di condannarla agli arresti domiciliari, a patto che lei non decida di lasciare la Birmania. Aung San Suu Kyi non cede. Malgrado la sua abitazione sia circondata dalle forze armate, costringendola all’isolamento, lei resta nel Paese per continuare la sua lotta civile.

Dopo alcuni anni di arresti domiciliari il regime birmano fa il primo errore strategico. Convinto di aver neutralizzato la forza e il fascino delle argomentazione della dissidente indice le elezioni politiche. Il successo della Lega Nazionale per la Democrazia, e quello personale di Aung San Suu Kyi, è straordinario. Le sue parole, il suo impegno, la sua figura di dissidente non violenta, accendono i cuori dei birmani che la votano in massa. Il successo è tale che secondo l’architettura costituzionale birmana a Aung San Suu Kyi sarebbe toccato il ruolo di Primo Ministro del Paese. Il regime militare reagisce in maniera durissima, annulla le elezioni, inasprisce se possibile l’isolamento di Aung San Suu Kyi, che oltre che illecitamente costretta agli arresti domiciliari si vede anche defraudata di una vittoria elettorale nettissima. Il mondo civile è sconvolto da tale brutalità e sempre più si parla nei media di Aung San Suu Kyi, la dissidente che fa delle parole e della democrazia le sue sole armi.

Nel 1990 il Parlamento Europeo le conferisce il Premio Sacharov. Nel 1991 le viene assegnato il prestigioso premio Nobel per la pace. Lei utilizza il consistente premio in denaro per aiutare il disastroso sistema di istruzione e sanitario del suo Paese. Dopo ulteriori cinque anni di ferrei arresti domiciliari, le viene concessa una sorta di semilibertà. Ma è una libertà controllata, parziale e insoddisfacente. A Aung San Suu Kyi non è consentito di viaggiare fuori dal Paese. Se avesse lasciato la Birmania, infatti, il regime non gli avrebbe permesso il ritorno. Vive questi anni di arresti domiciliari nell’isolamento politico, inoltre non le è consentito di vedere il marito e i figli, ai quali il regime birmano non concede i visti di ingresso, nella speranza che sia la donna a cedere ai sentimenti di moglie e madre uscendo dal Paese. A metà degli anni ’90 il marito di Aung San Suu Kyi è colpito da un cancro, di nuovo e con crudeltà il regime impedisce la visita dei famigliari. Il marito muore nel 1999, lasciandola vedova.

Nel 2002 l’ONU esercita la massima pressione sul regime birmano affinché consenta a San Suu Kyi una maggiore libertà. Alla donna viene concesso di muoversi liberamente nel Paese. Nel 2003 accade però un nuovo evento drammatico. Durante un incontro politico che raccoglie molti sostenitori di Aung San Suu Kyi l’esercito apre inspiegabilmente il fuoco uccidendo decine di persone. Per i media occidentali quell’avvenimento sembra avere tutto il sapore di un agguato, ma la donna riesce a salvarsi. Senza alcun motivo legale è di nuovo posta agli arresti domiciliari. Le vessazioni, l’isolamento politico, il divieto della libertà dei movimenti, riconducono Aung San Suu Kyi al regime detentivo più duro. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea fanno pressioni sui militari ma i loro appelli non persuadono il regime. Le condizioni di salute di Aung San Suu Kyi peggiorano. Viene sottoposta a cure e interventi chirurgici. Ma il suo nome è ormai di dominio pubblico. Riceve diverse lauree honoris causa da importanti Università americane ed europee, quando sembra aprirsi uno spiraglio.

Sono trascorsi altri quattro lunghi anni dall’agguato che sembrò attentare alla sua vita che Aung San Suu Kyi incontra un ministro del regime. Si crea nell’opinione pubblica una grande aspettativa, ma risultati dei dialoghi sono scarsi e per la donna non portano alcun risultato reale e nessun miglioramento della sua pessima condizione personale e politica. Il 6 maggio del 2008 il Congresso degli Stati Uniti la insignisce della più grande onorificenza del Paese, la Medaglia d’Onore, per l’impegno profuso nella difesa dei diritti umani. Se pure sembrano esserci di nuovo degli spiragli per la sua liberazione ancora un evento allontana la donna dalla libertà. Nel 2009 un fanatico religioso americano raggiunge la casa della politica birmana. Ad Aung San Suu Kyi il regime prolunga gli arresti domiciliari in seguito alla bugiarda accusa di essersi allontanata dalla sua abitazione.

Nel 2009 la Lega Nazionale per la Democrazia viene estromessa dai militari da ogni possibile ruolo politico. L’11 giugno 2009 Aung San Suu Kyi è condannata a tre anni di lavori forzati per via di una accusa di violazione della sicurezza. Le viene concessa la libertà il 13 novembre 2010. Dal quel giorno potrà fare in piena autonomia quello che in realtà non ha mai smesso di fare durante la prigionia, battersi per le rivendicazioni del suo popolo, utilizzando i precetti gandhiani della non violenza e condurre la Birmania verso la democrazia. All’inizio del mese di aprile del 2012 viene eletta ed ottiene un seggio in parlamento dopo quindici lunghi anni di arresti domiciliari. Il 18 giugno 2012 riceve a Oslo il premio Nobel che le era stato assegnato 21 anni prima. Una dissidente, una donna coraggiosa, che sta conducendo il proprio paese verso la speranza della democrazia.

Cuba e la dissidenza

Le autorità cubane hanno continuato a imbavagliare la libertà di espressione, associazione e riunione, a fronte dei tanto pubblicizzati rilasci di importanti dissidenti. Centinaia di attivisti filodemocratici e dissidenti hanno subito vessazioni, intimidazioni e arresti arbitrari. Ad aprile, il Partito comunista cubano ha tenuto il suo primo congresso dal 1997 e ha adottato un pacchetto di oltre 300 riforme economiche da introdurre gradualmente. Tuttavia, non sono state adottate risoluzioni per garantire ai cubani un più ampio godimento dei diritti civili e politici o per proporre riforme legislative finalizzate a concedere una maggiore libertà sull’isola.

Queste parole sembrano dettate alla nostra attenzione da un dissidente politico pieno di astio verso il regime, sarebbe normale crederlo. Si descrivono azioni caratteristiche dei sistemi totalitari, arresti ingiustificati, vessazioni, censura. Forse sono le stesse parole che avrebbe potuto scrivere un giornalista, se a Cuba vi fossero organi di stampa non direttamente gestiti e controllati dal governo. Ma nessun giornalista cubano ufficiale le ha mai scritte e mai le scriverà, almeno nel breve periodo. In realtà queste parole aprono il rapporto annuale Cuba 2012 di Amnesty Internacional. Il nuovo documento relativo all’isola caraibica traccia uno scenario desolante della realtà cubana. Se da un lato, dopo l’abbandono del potere da parte di Fidel Castro a causa di una seria malattia, il paese sembra in qualche modo tentare di orientarsi verso alcune riforme sociali ed economiche francamente necessarie, dall’altro persiste incessantemente nella sua politica di limitazione delle libertà personali.

Oswaldo Paya

Sembra paradossale notare un incremento dell’utilizzo di tali coercizioni da parte di un regime che dice di volersi riformare all’interno dei dogmi storici della rivoluzione castrista, ma i dati sono incontrovertibili. Se pure il premio Sacharov non ha confini e si propone di lodare uomini e donne di qualsiasi provenienza geografica, negli ultimi anni è accaduto qualcosa di drammatico e straordinario. Oswaldo Paya, le Damas de Blanco, Guillermo Farinas, tre dei vincitori del premio tra il 2002 e il 2010, hanno purtroppo qualcosa che li accomuna, sono tutti cubani. Come è mai possibile coniugare la necessità e l’annuncio delle riforme economiche e sociali con un peggioramento dello spettro dei diritti civili?

Il comportamento del regime militare cubano resta ambiguo su questo fronte, sono difficilmente leggibili i suoi propositi reali. Scernere le ipotesi di riforma dalla realtà di ogni giorno sembra un compito troppo arduo per qualsiasi osservatore. Il rapporto del 2012 di Amnesty Internacional continua: Le autorità hanno continuato a limitare gravemente la libertà di espressione, riunione e associazione di dissidenti politici, giornalisti e attivisti per i diritti umani. Questi sono stati sottoposti agli arresti domiciliari e ad altre restrizioni di movimento da parte delle autorità e di sostenitori del governo, che hanno impedito loro di svolgere attività legittime e non violente. Tutti i mezzi d’informazione sono rimasti sotto il controllo del governo cubano.

Il regime cubano ha utilizzato nel corso del 2012 tutti gli strumenti caratteristi dei sistemi totalitari, veicolando la propria attenzione ai dissidenti politici e allo loro azioni. Il panorama della dissidenza politica a Cuba è ricchissimo di personalità importanti e di storie crudeli che hanno avuto poca notorietà in Europa. Vogliamo ricordare come esempio di coraggio civico l’impegno di Orlando Zapata Tamayo.

Zapata era membro del Movimiento Alternativa Republicana e del Consejo Nacional de Resistencia Civil, fu arrestato il 6 dicembre 2002 e detenuto per oltre tre mesi. Il 20 marzo 2003 fu arrestato una seconda volta durante una delle consuete azioni di repressione e spedito alla famigerata prigione Kilo 8 di Camaguey. Accusato di vilipendio della figura di Fidel Castro, disordine civile e disobbedienza, è stato incredibilmente condannato a 36 anni di carcere. Amnesty International lo ha riconosciuto come prigioniero per motivi di opinione. Il 2 dicembre 2009 Zapata iniziò un durissimo sciopero della fame per protestare contro le autorità che gli avevano negato il diritto di indossare l’abito bianco simbolo dei dissidenti, invece dell’uniforme carceraria. Secondo la Direzione Democratica Cubana, le autorità carcerarie negarono l’acqua a Zapata per 18 giorni, ciò causò un deterioramento della sua salute e il presentarsi di una grave insufficienza renale. Zapata continuò lo sciopero della fame e fu ricoverato all’ospedale di Camagüey, dove gli furono iniettati fluidi per via endovenosa contro la sua volontà. Il 16 febbraio 2010 le sue condizioni peggiorarono ulteriormente e fu trasferito all’Hermanos Ameijeiras all’Avana, dove morì il 23 febbraio 2010 all’età di 44 anni.

Prosegue il rapporto di Amnesty Internacional e fa proprio riferimento alla triste vicenda di Zapata.

A febbraio, le autorità hanno arrestato oltre 100 persone in un’unica giornata e hanno posto agli arresti domiciliari oltre 50 persone durante un’azione preventiva nell’intento di fermare gli attivisti che commemoravano la morte di Orlando Zapata Tamayo, deceduto nel 2010 a seguito di un prolungato sciopero della fame mentre era in detenzione. Reina Luisa Tamayo, madre di Orlando Zapata, suo marito José Ortiz e Daniel Mesa, un attivista per i diritti umani, sono stati arrestati il 22 febbraio da circa 15 agenti della sicurezza mentre uscivano di casa a Banes, nella provincia di Holguín. Gli arresti erano finalizzati a impedire loro di intraprendere qualsiasi iniziativa in memoria di Orlando Zapata, in occasione del primo anniversario della sua morte, il 23 febbraio. Tutti e tre sono stati rilasciati 12 ore dopo. A giugno, Reina Luisa Tamayo è andata in esilio negli Usa assieme alla sua famiglia.

L’esilio è spesso la soluzione. Molte delle azioni repressive del governo cubano sembrano orientate a spingere i dissidenti verso l’esilio volontario. Questa soluzione è imposta non solo a chi ancora non ha subito procedimenti detentivi, ma talvolta è anche l’unica soluzione per ambire alla libertà per chi invece è già in prigione. L’esilio come merce di scambio, nel baratto imposto dal regime tra libertà e prigione. Importante notare come nell’estratto seguente Amnesty Internacional parli di “giro di vite del marzo 2003”, questo non è altro che la famosa Primavera Nera di Cuba. Il 17 marzo 2003 Castro lanciò una repressione in grande stile, utilizzando centinaia di agenti degli Uffici di Sicurezza del Stato, la polizia politica cubana. La repressione portò ad un’ondata di arresti e alla condanna di 75 giornalisti, sindacalisti, attivisti per i diritti umani e dissidenti per reati contro lo Stato e i principi della Rivoluzione cubana.

A marzo, le autorità cubane hanno completato il rilascio dei prigionieri di coscienza arrestati durante il giro di vite del marzo 2003, così come dei prigionieri politici, alcuni dei quali erano in carcere dagli anni Novanta. Il rilascio degli ultimi 52 prigionieri di coscienza era iniziato nel luglio 2010, a seguito di un accordo siglato con il governo spagnolo e grazie al dialogo con la Chiesa cattolica. La maggior parte degli ex prigionieri e dei loro parenti è stata costretta all’esilio e soltanto ad alcuni è stato concesso di rimanere a Cuba. Nestor Rodríguez Lobaina, presidente e coofondatore del Movimento della gioventù cubana per la democrazia, è stato costretto all’esilio in Spagna; era stato prigioniero di coscienza. Arrestato nel dicembre 2010, aveva trascorso quattro mesi in detenzione senza processo in relazione a un incontro che aveva organizzato a casa sua e a striscioni antigovernativi che aveva esposto davanti alla sua abitazione nell’agosto 2010. Nestor Rodríguez Lobaina aveva scontato una condanna a sei anni di carcere tra il 2000 e il 2005 per oltraggio alle autorità.

Damas de Blanco

Oltraggio alle autorità, disordine civile, vilipendio alla figura di Fidel Castro, reati contro lo Stato e i principi della Rivoluzione cubana. Reati di natura prettamente ideologico-politica divengono gli strumenti preferiti dei censori di regime. Ma ciò non deve sorprendere, tutti i regimi totalitari esercitano un vigoroso controllo degli organi legislativi e di quelli giudiziari. Queste istituzioni, che dovrebbero essere garanti nelle loro funzioni dell’equilibrio dei poteri e dei criteri generali di uguaglianza degli individui, sono invece orientate agli obiettivi di mantenimento del potere da parte del regime stesso. In questo scenario di verità negate il fermento della dissidenza cubana è sorprendente. Se Guillermo Cabrera Infante, uno dei più straordinari scrittori in lingua spagnola del secolo passato, morto in esilio, ha definito Cuba “il paese che ha prodotto più esuli in oltre un secolo e mezzo di storia americana” è oltremodo vero che molti cubani preferiscono restare in patria ed esprimere con tutte le forze il proprio dissenso. Proprio della terribile esperienza della Primavera Nera, un atto repressivo particolarmente mirato contro l’intellighenzia cubana che si proponeva di aprire un dialogo sul diritto alla democrazia, è nata una delle associazioni di dissidenza più note, le Damas de Blanco (vincitrici nel 2005 del Premio Sacharov).

Damas de Blanco (Signore in bianco) è un movimento di opposizione al governo cubano costituito dalle mogli e dai famigliari dei prigionieri di coscienza o prigionieri per reati di opinione rinchiusi nelle carceri dell’Isola. Nacque come naturale reazione agli inusitati arresti della Primavera Nera del 2003. Le Damas de Blanco si limitano a marciare, vestite di bianco e impugnando fiori, ma sono allo stesso modo osteggiate con violenza dal regime militare cubano che le incarcera e ne ordina continue vessazioni. Risale al 2011 la morte Laura Pollán, la fondatrice simbolo del movimento che per il suo impegno ha subito anni di violenze e limitazioni della libertà personale. Se pure in pieno clima riformista il regime cubano continua nella sua politica storica di contrasto agli oppositori. Così Amnesty Internacional ci parla nel rapporto 2012 delle Damas de Blanco.

Le autorità hanno continuato a ricorrere a detenzioni arbitrarie nel tentativo di ridurre al silenzio quanti criticavano le politiche del governo. Le Donne in bianco, familiari di ex prigionieri di coscienza della repressione del 2003, così come persone che le sostenevano, sono state ripetutamente vittime di arresti arbitrari e aggressioni fisiche, mentre tenevano proteste in diverse città cubane. Ad agosto, cinque Donne in bianco che vivevano nella città di Santiago de Cuba sono state arrestate prima che potessero raggiungere la cattedrale, dove avevano programmato di iniziare la loro marcia. Diciannove componenti del gruppo sono state arrestate alcuni giorni dopo e a 49 Donne in bianco e ai loro sostenitori è stato impedito di tenere una protesta nel centro dell’Avana, a sostegno dei membri del loro gruppo a Santiago de Cuba e in altre province orientali. In diverse occasioni è stato segnalato che le Donne in bianco avevano subito aggressioni fisiche e verbali da parte di sostenitori del governo durante le loro marce pacifiche. A ottobre, 26 Donne in bianco sono state brevemente detenute dalle autorità, impedendo loro di partecipare a un meeting organizzato dopo la morte della loro leader Laura Pollán. A luglio, più di 20 membri del Gruppo di appoggio alle Donne in bianco sono stati arrestati il giorno prima di una marcia organizzata dalle Donne in bianco alla chiesa di Nostra Signora del Rosario a Palma Soriano, nella provincia di Santiago de Cuba. Dissidenti che si dirigevano verso la chiesa sono stati anch’essi arrestati ed è stato loro impedito di partecipare alla marcia pacifica.

Laura Pollán

L’universo della dissidenza cubana ha perduto in pochi mesi un’altro esponente di punta, oltre alla fondatrice delle Damas de Blanco Laura Pollán, ossia Oswaldo Payá, che è stato al centro di un caso di risonanza mondiale. Oswaldo Payá è stato un dissidente sui generis, perché ha tentato di indurre (con il suo Progetto Varela) il cambiamento nel regime cubano e nella società non agendo esternamente alla rivoluzione, ma utilizzando le medesime concezioni formali della rivoluzione. Addirittura il suo progetto si faceva forza della Costituzione della Repubblica di Cuba. Ma anche questo progetto fu messo a tacere dal regime. Oswaldo Payá Sardiñas è nato all’Avana, 29 febbraio 1952. Leader del «Movimento Cristiano di Liberazione» dal 1987, è stato tra i più importanti dissidenti di Cuba. Uomo profondamente religioso divenne fin dall’adolescenza un oppositore del regime di Fidel Castro. Nel 1968, a 16 anni, dovette svolgere il servizio militare obbligatorio. Per non aver voluto partecipare al trasferimento coatto di un gruppo di prigionieri politici da una prigione all’altra, fu processato e condannato a tre anni di lavori forzati. Scontò la condanna nel’Isola dei Pini (oggi Isola della Gioventù). Nel 1972 si iscrisse all’Università dell’Avana; fu segnalato come “dissidente” per le sue idee, in poco tempo fu espulso continuando gli studi come autodidatta. Ebbe per tutta la vita delle serie difficoltà a trovare un lavoro in quanto non iscritto al Partito comunista cubano né all’Unione dei giovani comunisti (UJC). Quindi sin dalla giovane età Oswaldo Payá fu un osservato speciale dalle strutture della polizia politica cubana. Nel 1987, dopo aver fondato il «Movimento Cristiano di Liberazione», Payà iniziò una campagna in favore del dialogo con il regime. La risposta fu dura, l’11 giugno 1991 le cosiddette “Brigate di risposta veloce”, una formazione paramilitare dal forte carattere ideologico, entrarono con violenza nella sua abitazione, devastandola. Nel 1993 Payà iniziò una raccolta di firme per chiedere libere elezioni a Cuba. Nel 1996 elaborò il «Progetto Varela», ovvero la richiesta di referendum sulle seguenti materie: libertà di associazione, libertà di parola e di stampa, diritto per i cittadini cubani di costituire imprese (attività vietata sino al 2012 a Cuba, e ora estremamente limitata e controllata), modifica della legge elettorale, amnistia per i prigionieri politici e indizione di elezioni entro un anno dall’approvazione delle riforme.

Sulla base delle linee guida del Progetto Varela (omaggio a Padre Varela, sacerdote, antischiavista, scrittore, uomo politico cubano considerato uno dei padri della patria), Payà riunì la gran parte delle associazioni per i diritti civili dell’isola, pubblicando il manifesto “Tutti Uniti”. Il 5 luglio 2002 Fidel Castro bloccò la sessione dell’Assemblea in cui il provvedimento era legalmente in discussione. Il 28 giugno 2002 l’Assemblea Nazionale del Potere Popolare approvò con voto unanime le modifiche costituzionali imposte direttamente dai vertici del regime e oggi l’articolo 3 della Costituzione cubana dice chiaramente che il socialismo e il sistema politico e sociale rivoluzionario sono irrevocabili e “Cuba non si convertirà mai al capitalismo”. La proposta pacifica di Payà e la mobilitazione dei cittadini cubani richiamarono comunque l’attenzione internazionale verso l’isola. La vicenda del Progetto Varela ha dimostrato che anche affrontare la sfida del dibattito politico con le medesime regole imposte dal regime non è sufficiente per sperare nel cambiamento, il regime stesso non ha alcun timore o remora a modificare l’apparato legislativo a supporto dell’esercizio del proprio potere. Il 23 luglio 2012 Oswaldo Payá muore in un incidente stradale. La figlia Rosa Maria ha avanzato perplessità sul fatto che si sia trattato di una fatalità. Alla guida dell’automobile vi era un giovane politico spagnolo, condannato ad ottobre del 2012 a 4 anni di detenzione.

Oswaldo Payá vinse il premio Premio Sakharov per la libertà di pensiero dell’Europarlamento nel 2002, con la seguente motivazione: “rappresenta per molti cubani di oggi quello che Andrei Sakharov rappresentò negli anni ’80 per molti cittadini sovietici: la speranza”.

Payá è stato inoltre candidato al Premio Nobel per la pace nel 2005.

La nuova dissidenza digitale

Gli ultimi anni sono stati molto difficili per i movimenti dissidenti cubani, la prematura scomparsa di personaggi come Oswaldo Payá e Laura Pollán ha indebolito l’ideale schieramento degli oppositori al regime che da più di mezzo secolo amministra senza alcun ricambio generazione la più bella isola dei caraibi e gestisce la vita e il futuro di 11 milioni di cubani. Alla scomparsa di questi dissidenti storici si è però sostituita la nuova dissidenza cubana, costituita da trentenni alla ricerca disperata di spazi democratici e liberi, che fanno della tecnologia lo strumento più adatto alla denuncia del regime illiberale e totalitario in cui sono costretti a vivere. Se attraverso i metodi tradizionali dei regimi totalitari diviene facile controllare i dissidenti e quindi intraprendere le necessarie attività per ostacolare la comunicazione con l’esterno, attraverso l’utilizzo della rete Internet e dei nuovi Social Network il controllo puntuale diviene molto complesso se non irrealizzabile. A un dissidente che assiste alla brutalità quotidiana del regime è sufficiente possedere un telefono cellulare di ultima generazione per filmare l’accaduto e postarlo in rete in pochi istanti. Lo stesso vale per la scrittura di un testo attraverso siti web, blog, messaggi twitter. Vi è una Cuba nuova, giovane, che per la prima volta nella storia della dissidenza ha gli strumenti per opporsi alla totale censura della stampa cubana, non solo stampa statalizzata ma di riflesso ferocemente ideologizzata. I giovani dissidenti quindi creano la propria stampa, ne sono parte integrante, divenendo cronisti e reporter sul campo. Vivono nella realtà cubana, ben diversa dall’isola felice pubblicizzata dal regime castrista, e la raccontano nella reale brutalità dei fatti.

I nuovi dissidenti cubani non sono politicizzati e ideologici, nati in un regime dove a cinque anni si è obbligati a cantare l’inno nazionale e a declamare in pubblico poesie apologetiche degli eroi della rivoluzione, sembrano naturalmente poco propensi a cadere in una nuova e diversa ideologia. I giovani dissidenti parlano di carenze materiali, di corruzione dei vertici politici, di privilegi e privazioni, parlano dell’impossibilità a vivere una vita dignitosa con 25 dollari al mese di stipendio medio, parlano e scrivono della vita reale di tutti i giorni. Uno degli spazi virtuali simbolo della nuova dissidenza digitale è il portale Desde Cuba (da Cuba). Il portale non è altro che l’ingresso a circa quaranta blog personali realizzati da scrittori, intellettuali, professionisti, fotografi, semplici cittadini, che raccontano la realtà quotidiana del Paese senza la mediazione ideologica della stampa di regime. Vi si trovano notizie, testi di approfondimento, fotografie, video, semplici impressioni, realizzati direttamente da chi vive quella medesima realtà che viene raccontata. Proprio all’interno di questo portale è possibile accedere al più famoso blog relativo alla realtà cubana, Generacion Y di Yoani Sánchez.

Yoani Sánchez

A questa nuova forma di dissidenza digitale il regime cubano sta rispondendo, o sta cercando di farlo, con gli strumenti consoni a ogni regime totalitario. Reagire con le medesime armi. Ci occuperemo in seguito della guerra digitale intrapresa dal regime cubano. Di questa nuova dissidenza digitale la giovane Yoani Sánchez è l’esponente più importante e nota al mondo. È una giovane madre, una intellettuale, è osteggiata dalla fine degli anni 2000 dal regime cubano che l’ha arrestata diverse volte, che ne ostacola le attività editoriali, che le impedisce da anni di viaggiare all’estero, che proprio relativamente ai fatti legati alla morte di Oswaldo Payá ne impedisce addirittura gli spostamenti interni al Paese. Yoani Sánchez è controllata, seguita, dileggiata con tutti gli strumenti possibili da parte del regime cubano. Malgrado questo è divenuta un simbolo di straordinaria importanza nell’ambito della dissidenza cubana, perché ha dimostrato che con un telefono cellulare e un computer economico è possibile combattere uno dei regimi totalitari più organizzati al mondo. La rete Internet, la comunicazione, sono la nuova speranza dei giovani cubani. Raccontare e mostrare quello che avviene realmente a Cuba è lo strumento ideale per tentare di cambiare la società. Yoani Sánchez ha avuto riconoscimenti importanti, premi internazionali, ma il regime cubano le ha impedito di ritirarli senza alcuna giustificazione legale, e opera al massimo della propria capacità allo scopo di impedire di raccontare la vera Cuba. La rivista TIME ha inserito Yoani Sánchez nella lista delle 100 persone più influenti al mondo del 2008, motivando così la scelta: “sotto il naso di un regime che non ha mai tollerato il dissenso, la Sánchez è riuscita a esercitare una facoltà che i giornalisti legati al cartaceo, nel suo Paese, non possono esercitare: la libertà di parola”.

Come il regime birmano ha umiliato e vessato Aung San Suu Kyi, prima che divenisse uno dei simboli della rinascita democratica del Paese, così Yoani Sánchez sta dedicando la propria esistenza al sogno di una Cuba democratica.